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Archivi categoria: Religione

Perché non sono cristiano (parte 3)

La morte e l’Aldilà

La domanda più importante a cui la religione è chiamata a dare una risposta riguarda la morte. Per gli antichi, la morte era la fine di tutto; c’erano degli Aldilà, ma secondo i Greci e i Romani essi erano popolati da semplici ombre dei viventi, fantasmi che non erano affatto le persone defunte, ma tutt’al più loro immagini. Quando un essere umano moriva, smetteva di pensare e di provare sensazioni: in altre parole, la sua coscienza svaniva. Per questo la gloria era così importante, perché in un certo senso consentiva di “vivere dopo la morte” nel ricordo dei posteri.

Il cristianesimo, invece, prevede la sopravvivenza dell’anima nell’Aldilà. Quest’ultimo ha due aspetti: uno splendido, per chi è vissuto seguendo i precetti della religione, che è il Paradiso, e uno terrificante, destinato ai peccatori, ossia l’Inferno. Il primo è il luogo della ricompensa, il secondo quello della punizione, e il soggiorno dell’anima in uno dei due è eterno.

L’idea che dopo la morte possa esserci, per i virtuosi, un’eternità di piacere, crea immediatamente un problema: se l’Aldilà è tanto bello, perché non andarci il prima possibile? Una persona potrebbe vivere per, diciamo, vent’anni rispettando scrupolosamente ogni minima prescrizione o divieto, quindi ingerire una dose mortale di tranquillanti, certa di andare in Paradiso. È inutile dire che la società crollerebbe se tutti fossero ansiosi di morire; per evitare che ciò accada, il cristianesimo ha sviluppato l’idea che il suicidio sia un peccato che condanna automaticamente all’Inferno. Questa istituzione è chiaramente fasulla: perché Dio dovrebbe condannare alla dannazione eterna chi si toglie la vita? È vero che costui, morendo per sua mano, potrebbe provocare grandi sofferenze nei suoi cari, ma in tal caso non potrebbero suicidarsi anch’essi, certi di reincontrarlo nell’Aldilà? Dov’è il problema, dal punto di vista di Dio? Tra l’altro, molto spesso il suicidio è una scelta dettata da condizioni di vita insostenibili, praticamente un Inferno in terra; l’idea che una persona sofferente al punto da desiderare la morte debba essere punita con la dannazione è assolutamente malvagia e crudele.

Lo stesso concetto di Inferno è pieno di contraddizioni. Perché una persona dovrebbe soffrire per l’eternità a causa dei propri peccati? Gli esseri umani più longevi mai vissuti non hanno superato di molto i cento anni: se anche avessero commesso azioni tali da destinarli, secondo la religione, all’Inferno, una pena del genere sarebbe in ogni caso sproporzionata alla colpa, che per forza di cose non può aver avuto conseguenze altrettanto durature o essersi protratta per lo stesso periodo di tempo. E poi, che senso ha una pena eterna? Lo scopo della punizione, nelle società moderne, è sopratutto quello di contribuire al recupero del reo; ma dall’Inferno non si esce.

La religione istiga alla malvagità

La Storia e l’agiografia sono piene di esempi di crudeltà istigata dalla religione. Prendiamo il caso di Perpetua, sbranata dalle belve nell’anfiteatro di Cargagine nel 203 dopo Cristo: la giovane, cristiana, fu condannata a morire in questo modo orribile per aver rifiutato di adorare l’Imperatore come un dio. Nonostante avesse un figlio neonato, genitori che la amavano e, probabilmente, un marito, ella scelse di abbandonarli tutti per non contravvenire al Primo Comandamento: “Non avrai altro dio all’infuori di me”. Quanto avranno sofferto il padre e la madre di Perpetua per questa decisione presa per non contravvenire a un precetto? Quanto avrà sentito, quel bambino, la mancanza della madre mai conosciuta? Tanto dolore fu causato dal rifiuto di bruciare un semplice blocchetto d’incenso di fronte a una statua. Se folle era la legge che condannava chi compiva il rifiuto alla morte, altrettanto lo era il motivo della scelta, e crudele è quel Dio che non perdona chi antepone la forma esteriore della fede ai propri doveri nei confronti di chi la ama.

Non dimentichiamo, poi, le innumerevoli guerre e le violenze commesse in nome della religione. Le Crociate, lo sterminio degli Ugonnotti in Francia, le continue persecuzioni degli Ebrei nell’Europa cristiana, l’oppressione a cui gli Inglesi protestanti hanno sottoposto – e ancora sottopongono, anche se probabilmente per altri motivi – i cattolici irlandesi: tutti massacri giustificati dalla fede. Una fede che, come Crono, quando non trova altri nemici comincia a divorare i propri figli: così accadde al cristianesimo, che dopo aver messo fuori legge gli altri culti prese a perseguitare le proprie stesse minoranze. Per non parlare della giustificazione fornita dalla religione all’omicidio di innumerevoli donne innocenti, condannate per stregoneria e uccise in modi terribili. Il Paradiso è una promessa allettante per chiunque, al punto da fargli dimenticare le più elementari norme di civiltà e rispetto.

Questi sono, fra gli altri, due dei motivi per cui non posso dirmi cristiano.

 
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Pubblicato da su 27/04/2011 in Religione, Uncategorized

 

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Perché non sono cristiano – Parte 2

Proseguo il discorso con un tema che mi è venuto in mente questa mattina.

Divinità ed evoluzione

Conosciamo tutti, se non altro per sentito dire, l’affermazione in base alla quale teoria dell’evoluzione e religione non sono necessariamente in contrasto; mi pare la si faccia risalire a Darwin, anche se leggendo su Wikipedia delle sue credenze religiose la cosa mi lascia piuttosto perplesso (in sintesi: Darwin era agnostico). In ogni caso, indipendentemente dalla sua origine, considero questa idea assurda e completamente infondata: una cosa da “relazioni pubbliche” più che una seria affermazione teologica e/o scientifica.

Le parole dello stesso Darwin (in una lettera del 1860) sintetizzano il pensiero che andrò a esporre:

 

Charles Darwin (1809 - 1882)

 

I cannot persuade myself that a beneficent & omnipotent God would have designedly created the Ichneumonidæ with the express intention of their feeding within the living bodies of caterpillars, or that a cat should play with mice.

Non posso convincermi che un Dio benevolo e onnipotente avrebbe creato seguendo un disegno le Ichneumonidæ (un tipo di vespa, ndt) con l’intenzione specifica che trovassero il nutrimento nei corpi vivi dei bruchi, o che un gatto dovrebbe giocare coi topi.

Che cos’è, in concreto, l’evoluzione? Vista la quantità di fraintendimenti diffusi dell’argomento, sarebbe più semplice dire che cosa non è. L’evoluzione non ha niente a che vedere con un ipotetico “miglioramento” delle specie e le stesse non “si adattano” all’ambiente: il processo evolutivo vede principalmente individui con mutazioni vantaggiose che ne soppiantano altri nella competizione per la sopravvivenza. Un po’ come il celebre caso delle farfalle bianche e nere.

Il caso delle farfalle bianche e nere (riassunto)

 

In una foresta inglese vivono farfalle di due colori: alcune sono bianche, altre nere. Fatta eccezione per questo aspetto, le farfalle sono identiche e appartengono alla medesima specie. Gli alberi della zona hanno tronchi bianchi, quindi le farfalle chiare si mimetizzano meglio e sfuggono più facilmente ai predatori, mentre quelle scure, avendo meno “luoghi sicuri” a disposizione, vengono mangiate più spesso. La conseguenza è che ci sono molte farfalle bianche e poche farfalle nere.

Un bel giorno qualcuno costruisce una fabbrica nelle vicinanze del bosco. Il fumo delle ciminiere annerisce i tronchi, rendendo facile mimetizzarsi per le farfalle nere e praticamente impossibile per quelle bianche, che diventano il nuovo piatto preferito degli insettivori locali. La situazione sembrerebbe essersi invertita, ma non è così: in un bosco, infatti, la quantità di sfondi chiari è sensibilmente inferiore rispetto a quella di fondi scuri e, una volta perso il loro vantaggio principale (la possibilità di nascondersi “in piena vista” posandosi sui tronchi), le farfalle chiare diminuiscono di numero fino a estinguersi.

Ora, in quel bosco inglese, ci sono solo farfalle scure.

 

Il caso delle farfalle bianche e nere dimostra che c’è ben poco di “amorevole” o “divino” nell’evoluzione, a meno che qualcuno non voglia ipotizzare che il Signore abbia suggerito all’industriale inglese di costruire la sua fabbrica proprio nelle vicinanze di quel bosco. Un cambiamento nell’habitat ha modificato i requisiti necessari all’affermazione e alla sopravvivenza: chi era in possesso di quelli nuovi è andato avanti, gli altri sono stati cancellati dall’esistenza. Chi mai potrebbe considerare una cosa del genere come opera della Provvidenza?

La convivenza fra teoria dell’evoluzione e religione (come del resto quella fra religione e qualunque teoria scientifica seria) presentare anche un altro problema, che poi è lo stesso a cui ho accennato nel post precedente di questa serie ed è anche la domanda a cui nessun credente pare in grado di rispondere in modo accettabile: perché? Ovvero, perché milioni di miliardi di esseri viventi, a partire dalla nascita della vita sulla Terra, sono stati condannati a morte da cambiamenti ambientali che non potevano in alcun modo influenzare? Perché Dio non ha dato alle Sue creature la possibilità di adattarsi come certi supereroi dei fumetti, che si trasformano istantaneamente per far fronte a determinati pericoli? Oppure, in alternativa, perché Dio non ha impedito che questi cambiamenti si concretizzassero?

Le possibilità sono le solite due: o Dio non ha potuto fare queste cose (e allora, per definizione, non è Dio), oppure non ha voluto (e allora bisognerebbe far propria l’opinione espressa da José Saramago in Caino, secondo la quale Dio è un gran pezzo di merda). Non vedo alcuna possibilità che un Dio buono e onnipotente possa avere qualcosa a che fare con quella strage di innocenti che è l’evoluzione. A meno che Dio non si preoccupi degli esseri umani e basta, nel qual caso vorrei fargli presente che il restante 99,999…9% dei viventi, se potesse parlare, avrebbe parecchie cose da dirgli.

 


 
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Pubblicato da su 17/01/2011 in Religione, Uncategorized

 

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Perché non sono cristiano – Parte 1

Di recente ho riletto la raccolta di saggi di Bertrand Russel pubblicata dalla Tea col titolo Perché non sono cristiano. Come ricordavo, i saggi interessanti sono sopratutto i primi: negli altri Russel parla di argomenti più generali, come l’educazione tradizionale, che riguardano la religione solo marginalmente (anche se alcune sue osservazioni, nonostante scrivesse negli anni ’30, sono valide ancora oggi). Ciò nonostante il libro è molto interessante: Russel ha le idee chiare e scrive con grande semplicità e ludicità. Consiglio a tuti, cristiani e non, di leggerlo, dal momento che parecchie idee dell’autore mi paiono condivisibili da tutti.

La rilettura mi ha dato l’idea per una serie di post in cui discutere delle mie credenze e, sopratutto, dei motivi per cui considero la religione organizzata inutile nel migliore dei casi e deleteria nel peggiore (non diversamente da Russel). Nei miei discorsi farò riferimento quasi esclusivamente al cristianesimo, perché è la regione monoteista con cui ho la maggiore familiarità, ma credo che la maggior parte di quello che dirò sia applicabile anche alle altre fedi.

La copertina della mia edizione del libro

Tengo a sottolineare che quanto esporrò sarà il mio pensiero, non quello di Russel: qualora citassi il filosofo, lo farò esplicitamente. Quindi non andate a dire che quello che scrivo io è quello che dice Russel, altrimenti il fantasma del caro Bertrand potrebbe venire a tirarmi le coperte e fissarmi col suo sguardo torvo perché io corregga l’ingiustizia. :P

La mente di Dio e la mente umana

Qualunque essere umano si pone delle domande su questioni fondamentali della vita; le più importanti, a mio parere, sono quelle che riguardano il dolore e il male. Da dove vengono? Qual è il loro rapporto con la divinità? A questi dubbi ha risposto Epicuro, duecento e rotti anni prima della nascita di Cristo, con il famoso tetralemma:

La divinità o vuole abolire il male e non può; o può e non vuole; o non vuole né può; o vuole e può.
Se vuole e non può, bisogna ammettere che sia impotente, il che è in contrasto con la nozione di divinità; se può e non vuole, che sia malvagia, il che è ugualmente estraneo all’essenza divina; se non vuole e non può, che sia insieme impotente e malvagia; se poi vuole e può, sola cosa conveniente allla sua essenza, donde provengono i mali e perché non li abolisce?

Insomma, l’esistenza di un Dio buono e onnipotente è logicamente impossibile, perché se il male esiste i casi sono due: o Dio lo consente, nel quale caso non è buono, o Dio non può evitarlo, nel qual caso non è onnipotente.

A questo punto i cristiani, vedendo menzionata la logica, tirano inevitabilmente in ballo la questione dell’imperscrutabilità della mente di Dio, che è troppo grande e complessa perché i mortali possano intuirne i piani. Se esiste il male, dicono, è perché Dio ha le sue ragioni per consentirgli di esistere, ma noi non possiamo nemmeno immaginare quali esse siano. Questa risposta è un “perché sì” bello e buono: se un adulto rispondesse in modo simile a qualunque altra domanda, lo prenderemmo in giro. Invece tale spiegazione è accettata quando si parla di religione. Lol?

Questa è la prima ragione per cui non sono cristiano: il cristianesimo fornisce agli adulti giustificazioni per comportarsi come bambini. Rifiutare di mettere in discussione le proprie credenze in nome di un malinteso “rispetto per le opinioni” non è un atteggiamento da persona civile: è un chiudersi a riccio quando c’è anche la minima possibilità di avere torto. Ci vuole poco a estendere questo atteggiamento ad altri ambiti della vita sociale, coi risultati che vediamo ogni giorno: una Chiesa cattolica potentissima e intoccabile, per esempio.

Fra l’altro, il discorso riguardo la differenza fra mente divina e mente umana è facilissimo da smontare. Se la mente umana è opera di Dio, infatti, ci possono essere solo due motivi per cui essa non è pari alla Sua: o Dio non lo ha voluto, oppure Dio non poteva creare esseri con una mente pari alla sua. Nel primo caso, non vedo altra ragione al di là del timore che la creatura potesse in qualche modo detronizzare il creatore; nel secondo, Dio è impotente e quindi non si vede perché dovrebbe interessarci qualcosa di lui.

La metafora dei ciechi

Spesso i cristiani, per “dimostrare” che Dio esiste, ricorrono alla metafora dei ciechi e dei colori. All’interno di un dialogo, essa si presenta solitamente così:

Agnostico/Ateo: “Io non sono in grado di percepire Dio in alcun modo, dunque Dio non esiste.”

Cristiano: “Se tutti, tranne te, fossimo ciechi e tu venissi a parlarci dei colori, avremmo ragione a dire che non esistono perché non possiamo vederli?”

La risposta alla domanda dovrebbe essere un netto “sì”. In un mondo di ciechi nessuno avrebbe bisogno dei colori, esattamente come nel mondo reale nessuno ha bisogno di Dio. Chi è cieco dalla nascita vive benissimo senza avere alcuna idea di cosa sia il rosso, perché non fa affidamento sull’aspetto delle cose per distinguerle.  Allo stesso modo, se il mondo che ci circonda si può spiegare tranquillamente senza ricorrere a teorie sull’Onnipotente ed Egli stesso non dà alcun segno della propria presenza, possiamo dedurne che Dio non esiste o che, se esiste, non serve proprio a niente.

Da notare l’atteggiamento implicito nel proporre una metafora del genere: i ciechi sarebbero i non credenti, che non vedono ciò che invece per il cristiano è evidente.  Il messaggio è: “Se qualcuno ti parla di qualcosa che potrebbe benissimo non esistere e non porta la minima prova in favore delle sue argomentazioni, ha ragione lui. Pirla!” Educativo, eh? Sarebbe come se, in un processo, la colpevolezza fosse assunta e la difesa avesse l’onere di dimostrare il contrario: un’impresa molto difficile, se non impossibile, perché dimostrare che qualcosa non esiste è di svariati ordini di grandezza più complesso che dimostrarne l’esisteza. Per il pensiero cristiano, invece, è sufficiente la fede, ovvero il “perché sì”, per essere sicuri: se gli altri non sono d’accordo, dimostrino che il cristianesimo ha torto! Un bel modo di ragionare per conservare i privilegi acquisiti nel corso dei secoli.

 
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Pubblicato da su 11/12/2010 in Religione

 

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